di ANDREA TRAPASSO
COSENZA – Le storie, per non essere dimenticate e soprattutto se ad esse si lega a doppio filo l’identità di un intero popolo e di un intero territorio, devono essere raccontate, tramandate, consegnate di generazione in generazione. Obiettivo principale, questo, della pellicola di Laszlo Barbo, Quel che resta, film incentrato sull’agghiacciante tragedia del terremoto di Reggio e Messina del 1908, proiettato ieri nella sala del Modernissimo nell’ambito del festival la Primavera del Cinema Italiano, che vive così un’altra intensa giornata del suo ricco e serrato calendario. Una proiezione che ha registrato sulle poltroncine del cinema cosentino anche una presenza d’eccezione, monsignor Salvatore Nunnari, reggino e arcivescovo della diocesi di Cosenza-Bisignano. Al film è seguito l’incontro e il dibattito con parte del cast di questo film interamente “made in Calabria”: l’attore principale Luca Lionello, figlio dell’indimenticato Oreste, il duo comico reggino (ma in grado come in questo caso di interpretare ruoli del tutto drammatici) Giacomo Battaglia e Gigi Miseferi, nonché il compositore della colonna sonora Sandro Scialpi. Questi gli attori presenti (che riceveranno al termine dell’incontro il premio de la Primavera del Cinema Italiano), sebbene il cast si allunghi con nomi di assoluto prestigio come Giancarlo Giannini, Franco Nero, Rosa Pianeta, Paola Casella.
La necessità di tramandare una storia, dicevamo. In questo caso è la storia di un’immane tragedia, che oggi ritorna di grande attualità, il sisma che nel 1908 distrusse Reggio Calabria e Messina. Entrambe le città e non solo quella siciliana come spesso erroneamente si tende a ricordare («Quella disgrazia è anche nostra e ce la teniamo» ironizza Miseferi). Da qui il bisognodi non dimenticare un avvenimento che cambiò per sempre la fisionomia di un’intera porzione di Calabria e della sua gente. Quel che resta, lungi dall’avere pretese di mero documentarismo, lo fa attraverso la storia dei sopravvissuti, di quella gente che vide all’improvviso rivoluzionate le proprie vite e che fu costretta, come dice Battaglia, a ricominciare. Si ricominciò con la costruzione della baraccopoli per gli sfollati, provvisoria si disse, ma che costrinse migliaia di persone a vivere in condizioni disagiate per decenni. Il percorso del film inizia dai giorni nostri e ci riporta, attraverso il racconto che il misterioso vecchio (Franco Nero) fa all’ingegnere (Lionello) che sta per demolire una vecchia casa per permettere la costruzione di un viadotto stradale, all’immediatamente prima del sisma del 1908, in casa dei Calauti, famiglia della Reggio “bene” che attende la visita di D’Annunzio (Pannunzio lo storpia il figlio del Calauti), per poi giungere all’immediatamente dopo di quella tragica notte che stravolse tutto. Per sempre.
Proprio tra le baracche degli sfollati si muove la storia dei diversi protagonisti. Don Micuccio Caporale (ancora Lionello), rampollo della famiglia baronale del luogo, si innamora perdutamente di Cata, giovane di umili origini compagna infantile di giochi prima del sisma e figlia di Angela, bracciante nelle terre del barone. Cata, crescendo, è divenuta bellissima e per don Micuccio l’invaghimento fa presto a trasformarsi in una passione morbosa. Con la sua autorità prepotente di notabile, e con la complicità di alcune prostitute delle baracche, gli riesce di trovarsi da solo con Cata e, pur non compiendo “l’irreparabile atto”, Cata ne esce lo stesso “disonorata” a causa delle “malelingue”. La storia dei due (che potranno ritrovarsi solo nella fuga dalla città per sfuggire all’influenza spagnola), per quanto elemento portante della trama del film, resta solo un pretesto per rappresentare, dal punto di vista di tutti gli altri personaggi, le condizioni dei sopravvissuti del terremoto e dare uno spaccato ben preciso della società di quel particolare frangente storico. Molteplici sono i temi: la prepotenza e lo sfruttamento della classe baronale sulla povera gente; la condizione della donna di primo Novecento, costretta, da una religiosità estremizzata e da una mentalità diffusa, a mantenersi pura in vista dell’imprescindibile passo del matrimonio; la cattiveria che nasce tante volte dalla disperazione. Barbo ci descrive il tutto con un’ottica quasi verghiana, che sembra voler condannare all’immobilismo e al patimento la povera gente. «Non c’è speranza per noi delle baracche» afferma uno dei protagonisti. E i fatti sembrano poi dargli ragione.
Se c’è un elemento di speranza nel film, quello si intravede nel lungo cammino dell’ingegnere che, dopo aver ascoltato la storia dal vecchio, rinuncia a proseguire il suo lavoro di demolizione e si allontana, idealmente, verso il futuro. Un futuro in cui non si dimentica, in cui tutti conoscono le proprie origini, la storia della propria terra e ne fanno tesoro, ne traggono insegnamento.
«Sarà più difficile dimenticare il terremoto di Reggio Calabria dopo questo film» proclama al pubblico in sala un soddisfatto Luca Lionello. Quel che resta, allora… saremo noi a doverlo dire.
FONTE: Il Quotidiano della Calabria
FONTE: Il Quotidiano della Calabria
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