di ANDREA TRAPASSO
«LE
DONNE serbano le tradizioni, conoscono i pensieri riposti degli uomini. Per
esse il mondo è sensibile, per esse arrivano le stagioni nuove e le ore di
riposo. L’uomo le ascolta come la voce dei suoi campi, delle sue città, delle
sue leggende, delle sue guerre, delle sue generazioni vittoriose e vinte...».
Scriveva così Corrado Alvaro in “Quasi una vita”, l’opera che gli valse il
Premio Strega nel 1951. In queste poche righe è possibile intuire l’importanza
che la figura femminile abbia avuto nella sua poetica, venendo spogliata dalla
sua misera condizione esistenziale e posta nel gradino più alto della scala dei
valori. A guidarci nella concezione e nella rappresentazione della figura
femminile nell’opera dello scrittore reggino, è un saggio inedito del compianto
regista teatrale catanzarese Pino Michienzi, pubblicato postumo, qualche mese
fa, da La Rondine edizioni.
In
"L'autobiografia e le donne nel mito della memoria e
dell'infanzia di Corrado Alvaro", Pino Michienzi affronta la tematica femminile nella
letteratura del suo conterraneo, mostrando come l’autore di “Gente in
Aspromonte” abbia fondato la sua produzione su continui riferimenti
autobiografici, procedendo a una sorta di mitizzazione dell’infanzia e della
memoria e restituendoci un’immagine di una terra, la Calabria, che assurge a
rappresentazione universale dell’uomo e delle sue eterne lotte per la vita. E
in tutto questo è la donna che fa da collante e diviene la depositaria di
valori e tradizioni, di un’umanità che la collocano quasi in uno status di
“divinità”. Una divinità non eterea, ma umana, sulla quale si reggono la società
e la famiglia meridionali, che marianamente è consapevole del destino di dolore
riservato alla propria discendenza ma che non abbassa mai la testa e lotta per
la propria stirpe.
Il percorso di Michienzi si articola in tre tappe,
corrispondenti alle tre sezioni in cui è diviso il suo saggio. La prima ci mostra come tutta la produzione
letteraria alvariana sia segnata da un fortissimo contenuto autobiografico, dai
luoghi descritti alle vicende narrate, dai sentimenti alle ragioni che muovono
l’agire dei suoi personaggi. Come dalla trilogia “Memorie del mondo sommerso”
(costituita da “L’età breve”, “Mastrangelina” e “Tutto è accaduto”) così anche
dal capolavoro “Gente in Aspromonte”, emergono i temi cari allo scrittore di
San Luca: l’emigrazione e la ricerca di migliori fortune; la lotta di classe e
la contrapposizione tra popolani e signori; la nostalgia dell’infanzia e la
concezione della natura come personaggio vivo e reale. Michienzi ci restituisce
un Alvaro spogliato dal regionalismo di cui spesso fu accusato, in cui le
tematiche trattate assumono una valenza universale, poiché «egli carica i suoi
racconti di significati così forti e solenni, forse a volte retorici, che li
conduce alla soglia del “mito” e quindi dell’assoluto».
Da qui si passa al nucleo del saggio in cui Michienzi
analizza le figure femminili alvariane. «Tutta
l’opera alvariana – scrive il regista – è da considerarsi come un palcoscenico
di umanità dove la donna recita sempre un ruolo di primo piano: Teresita,
Melusina, Antonia, Mastrangelina, Coronata, la zingara, la pigiatrice d’uva,
eroine o no, lasciano nell’animo del lettore un sentimento di ammirazione o di
pietà che le riscatta da una vita sbagliata volutamente, o per un gioco tragico
del destino». L’elementarità delle loro passioni, dunque, caricano di umanità
queste figure senza mai intaccarne l’importanza. È alla donna che è affidata la
trasmissione della cultura, nel focolare domestico. Una donna che, pur nella
sua solitudine, non si rassegna mai quando si tratta di salvaguardare i propri
affetti. Donne in grado di emanare un erotismo fortissimo e di non perdere mai
la dignità. «Alvaro parla di lei, pastorella o prostituta, madre o figlia, eroina
o zingara, con un sentimento di tale commossa partecipazione e misticità come
in presenza di un essere storicamente superiore, intoccabile, tanto è magnifico
e speciale» evidenzia Michienzi. Pur senza disperderne la carica umana. E su
questo modello viene umanizzata anche una figura mitica come quella di Medea,
in cui Alvaro si sforza di figurare il tentativo di salvare i figli da una vita
infelice, avvicinandola ai personaggi concreti di un villaggio concreto, magari
calabrese.
Nell’ultimo
capitolo Michienzi pone ulteriormente l’accento sulla spiccata propensione
autobiografica della letteratura di Corrado Alvaro, che perciò compie un vero e
proprio processo di mitizzazione di due concetti fondamentali per il suo
percorso di scrittore: la memoria e l’infanzia. Memoria è vita, poiché ognuno
singolarmente, attraverso il ricordo può tramandare la Storia. E non solo
quella individuale ma anche quella collettiva. «La Memoria in Alvaro – scrive
Michienzi – diventa Favola della vita». E così anche l’infanzia: «Soltanto
nell’infanzia, intesa quindi come archetipo di purezza originaria e
incontaminata, è possibile ritrovare se stessi con l’aiuto illusorio della
memoria che qui assume funzione di liberazione da vincoli e schemi creati
dall’adulto per la sua appartenenza alla società e ai suoi codici di
rispettabilità». E in questo processo, dunque, diventano “mitici” anche i
personaggi dei racconti di Alvaro, in primis la donna. Celebre resta la
descrizione della donna-madre che lo scrittore fa in “Madre di paese”: «Quando
ella porge il pane al figlio sembra che dica: “Prendi questo è il mio corpo”».
Fonte: Il Quotidiano della Calabria del 22/07/2013
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