di ANDREA TRAPASSO e BRUNO GRECO
RENDE – Sul taccuino del tour 2011, i White Queen mettono il segno di spunta anche sulla città di Rende. «Sin lugar a dudas el mejor omenaje a Queen del mundo... grasias al mejor doble de Freddy Mercury del mundo, el italiano Piero Venery». Queste parole di riconoscenza e apprezzamento nei confronti di una delle cover band "migliori" dei Queen, introducono i fan al sito ufficiale del gruppo, sottolineando da subito l’internazionalità dei White Queen, band pugliese apprezzata un po’ in tutte la parti d’Europa.
La scorsa settimana, intorno alla mezzanotte nei locali del Camelot County a Roges, tutti gli appassionati dell’intramontabile rock band inglese hanno potuto ascoltare i brani più famosi dei Queen, con la possibilità di fare un tuffo nel passato, grazie alle "fedeli riproduzioni" che i componenti hanno curato nell’impersonare Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon.
Contestualmente all’estetica classica, la mimesi, intesa come forma di imitazione della realtà nelle arti figurative, rappresenta la "creazione artistica", fedele alla natura quanto alla realtà. Senza perdersi nei meandri della filosofia platonica, si può ben dire che la mimesi dei White Queen è piuttosto ben riuscita, sottolineando che, a prescindere, è degno di ammirazione chi si cimenta a imitare, con tutte le difficoltà che ne derivano, ciò che è unico ed irripetibile.
Lascia di stucco la somiglianza di Vito De Matteis con Brian May, nell’aspetto, nelle movenze, nel riprodurre quei riff che hanno reso celebre il chitarrista inglese. Da applausi l’interpretazione alla batteria di Roberto D’Amicis nei panni di Roger Taylor. Da trattare a parte quella che, a detta degli esperti, rappresenta la punta di diamante dei White Queen.
Con una buona voce e delle notevoli doti trasformistiche, Piero Venery, il leader del gruppo, nel tentativo di ricostruire il personaggio dell’intramontabile Freddy Mercury, di sicuro uno degli artisti più eclettici (e per questo scomodi) che la storia della musica abbia mai conosciuto, ha di certo offerto al pubblico presente uno spettacolo del tutto coinvolgente. Uno spettacolo curato nel dettaglio, dai costumi, alle movenze, dagli acuti all’impatto scenico (dalla corale Radio gaga, all’ambigua I want to break free – interpretata come nel celebre video col cambio di identità nel costume provocatorio di una pseudo-casalinga – fino all’unica ed irripetibile Bohemian Rhapsody), tutta roba che ha legato per decenni, il grande pubblico all’icona “trasgressiva” per eccellenza. Peccato che il tutto fosse spinto, nel caso di Venery, fino al limite estremo, trasformando quello che per i Queen era uno spettacolo corale in un esibizionismo forzato, che al Camelot ha costretto i presenti ad assistere a tratti più a una gag comica che a un concerto di musica rock. Ed ecco che, come spesso accade, il “coinvolgente” risulta essere “troppo coinvolgente”, con la scelta voluta di eliminare più e più volte il divario tra palco e pubblico, tramite continue esibizioni tra la gente, movenze provocatorie e trovate grottesche più che artistiche, che tutt’altro effetto suscitavano quando protagonista era “the King” Freddy. Venery non è Mercury, direte voi, ma sappiamo che l’essere umano ha anche la capacità di riconoscere i propri limiti e di fermarsi quando quella soglia non può e non deve essere oltrepassata per non cadere nel ridicolo. Ma, volendo attribuire al comportamento scelto una buona dose di connotazione provocatoria e di denuncia nei confronti di moralisti e puritani, si potrebbe anche sorvolare, pur mantenendo salda la consapevolezza che Freddy Mercury era sì trasgressivo e provocatorio, era sì omosessuale e fiero di esserlo, ma non avrebbe mai voluto rappresentare un fenomeno da baraccone.
Non si può però sorvolare su quelle che sono state le vere note negative della serata, che lasciano l’amaro in bocca giusto verso la fine, quando credi di tornare a casa assaporando le note ancora fresche di Bohemian Rhapsody e invece ti ritornano in mente le inutili quanto patetiche cadute di stile del cantante.
Infatti, Piero Venery, rivolgendo il microfono al pubblico e invitandolo a completare la frase finale della celebre canzone (“nothing really matters to me”), giudica poco efficace la risposta, prendendosi la libertà di sentenziare «questa è incapacità calabrese», apostrofando le persone del pubblico quali «branco di seguaci di Ligabue e Vasco Rossi», come se ciò fosse un sacrilegio. In realtà, già il centro della sala cominciava a svuotarsi per lasciare spazio ai preparativi del dopo concerto, e la risposta del pubblico è risultata flebile solo a causa della lontananza dal microfono di Venery. In ogni caso, mettendo al bando ogni forma di campanilismo e di “amor patrio”, non sentendoci affatto incapaci e rispettando qualsiasi genere di musica ognuno possa coltivare, ci sentiamo solo di affermare, primo, che il vero artista rispetta il pubblico che è lì ad applaudire la sua esibizione e che, secondo, tacciare con il termine di “incapace” la popolazione di un’intera regione è più degno di un discorso da visionario e ignorante guerrafondaio che da artista che vuole portare in alto e in giro per il mondo il nome della propria terra. I vicini amici pugliesi dovrebbero forse fare maggior attenzione a coloro i quali si attribuiscono il ruolo di rappresentare la loro terra e di questa si riempiono la bocca.
Gli artisti, si diceva, sono un’altra cosa e nulla di artistico ha avuto, infine, il modo con cui Venery ha deciso di chiudere il proprio concerto. Il culmine del patetismo da parte del cantante, infatti, é stato raggiunto con la sua uscita di scena, quando, intento a dissipare qualsiasi dubbio sulla sua virilità, proclama: «Vorrei fare i miei saluti, prima a tutte le donne presenti che hanno creduto che fossi gay e poi a tutti gli uomini che tanto lo hanno sperato» e, volgendo alla gente il suo deretano, conclude con «… questo culetto è solo mio».
La giustificata condizione eterosessuale, oltre ad aver rappresentato una mancanza di rispetto nei confronti del grande Freddie Mercury, che della sua omosessualità dichiarata ha fatto un punto di forza e di riscatto, ha sminuito tutto il concerto. Si tranquillizzi il signor Venery: tutti i presenti hanno fin da subito capito che il teatrino messo da lui in scena, non era affatto dovuto alla sua condizione da omosessuale, ma a un bislacco eccesso di protagonismo e a un goffo e malriuscito tentativo di imitazione. Ma se anche la natura del signor Venery fosse stata omosessuale, l’incapace pubblico calabrese del Camelot County, non avrebbe avuto, stia tranquillo, nessun genere di pregiudizio.
Nonostante il resto della band meriti la piena promozione, dal concerto cosentino, il pugliese Piero Venery ne esce meritatamente bocciato.
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