di ANDREA TRAPASSO
“La libertà consiste nella libertà di dire che due più due fanno quattro. Se è concessa questa libertà, ne seguono tutte le altre”.
Questa è la frase che Winston Smith, nel nascosto della sua camera, appunta sul suo diario nei momenti iniziali di 1984, capolavoro assoluto di George Orwell. Scrive questo, che apparentemente può apparire come un concetto scontato e irriducibile, col tentativo di affermare, consapevole di quello che stava accadendo nel mondo dominato dal Grande Fratello, un briciolo di quell’umanità che progressivamente veniva annientata. Cercava di lasciare nella scrittura una testimonianza di una libertà che potesse essere ottenuta nella solitudine e con lo stretto rapporto col proprio io.
Chissà, se il povero Winston avesse avuto la possibilità di vedere se stesso alla fine del romanzo, quando su un tavolo impolverato scrive quasi incosciamente “2+2=5”, probabilmente la frase sopra riportata sarebbe stata così trasformata: “La libertà consiste nella libertà di pensare che due più due fanno quattro”.
L’autonomia del pensiero è ciò che fa di un uomo un uomo. Quando un essere umano perde la facoltà di poter elaborare pensieri in completa autonomia, se dovesse accadere un qualcosa che solo lontanamente possa somigliare alla visione fornitaci da Orwell nel suo libro, quella sarebbe la fine definitiva della vera libertà. La fine stessa della singolarità ed unicità di ciascun essere umano.
Il pensiero è quella porta aperta verso mondi infiniti e sconosciuti. Un percorso aperto verso la libertà che nessuna barriera, nessuna prigionia, nessuna circostanza può servire a fermare.
Due esempi, due testimonianze possono essere qui prese come riferimento: le vite di Andy Dufresne e di Jean Dominique Bauby. Cosa hanno in comune un personaggio frutto della penna di uno scrittore e un uomo realmente esistito? Un ergastolano protagonista del film Le ali della libertà (tratto dal racconto Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank di Stephen King) e un giornalista colpito da un hictus? Sono entrambi eclatanti casi della più meravigliosa condizione umana: la libertà del pensiero.
Andy Dufresne entra nel carcere di Shawshank con la condanna a due ergastoli per l’accusa del duplice omicidio della moglie e del suo amante. Delitto che non ha commesso. Accetta con disarmante dignità la propria condizione e, tra tutte le difficoltà pratiche del detenuto, inizia una nuova vita che non lo porterà mai, neanche per un attimo, ad allontanarsi dalla sua umanità. Pur sapendo che probabilmente non uscirà mai da quelle mura, egli continua a essere un uomo libero e solo perché delle sbarre possono bloccare solo il corpo ma mai il pensiero. Ed ecco che un poster di Rita Hayworth, oltre che essere la salvezza materiale del protagonista (leggere il racconto o guardare il film per capire), diventa una via di fuga della mente; le Nozze di Figaro di Mozart sono un pretesto di volare via dal carcere sulle onde della musica (significativo quando Andy dopo due settimane di isolamento afferma di non essere mai stato solo perché c’era Mozart a fargli compagnia). Ellis Boyd Redding, detto Red, a cui Andy si lega da un’indissolubile amicizia, spiega bene quello che succede a un carcerato quando trascorre anni e anni in penitenziario. Descrive benissimo quel processo di “istituzionalizzazione” per cui ogni detenuto pluriennale trova nella dimensione della prigione una sorta di nuova identità che lo porta a non essere capace più di vivere al di fuori di quell’ambiente. Nel dare una spiegazione al suicidio di Brooks, impiccatosi dopo pochi giorni di libertà condizionata dopo 50 anni di prigionia, Red afferma: “Qui dentro era qualcuno, era utile a qualcosa, era il bibliotecario, fuori non era più nessuno”. Per Andy non è così. Andy trascorre 20 anni in prigione e forse non ci era entrato mai davvero, perché non divenne mai un istituzionalizzato. Perché non fermò mai il corso del suo pensiero, non permise a nessuno, neanche ai suoi carcerieri, di impadronirsene. Quello stesso pensiero che, quando in quelle mura non trovò più la possibilità di trovare espressione e che, anzi, diventò causa di dolore e morte (il giovane Tommy Williams che Andy prese sotto la sua ala per fargli conseguire il diploma, viene ucciso perché gli si impedisse di testimoniare dell’innocenza dello stesso Dufresne), lo spinse a spiccare il volo, a evadere per inseguire quei sogni che in 20 anni non aveva mai trascurato. “Ci sono uccelli che non sono fatti per stare in gabbia” afferma Red quando scopre l’assenza dell’amico. Andy era uno di questi uccelli e riuscì a trovare la forza di rompere le sbarre che imprigionavano il suo corpo solo perché sospinto da un cuore che in quelle sbarre mai era stato rinchiuso.
E Jean Dominique Bauby? Bauby è un sogno, un miraggio, un alieno venuto da altri mondi. Non nel senso che anch’egli sia il frutto di fantasia, ma perché può essere considerato la massima esemplificazione (almeno per l’esperienza personale di chi scrive) di ciò che è l’uomo nella sua più recondita essenza: un essere libero. Bauby viene colpito da un ictus dal cui coma si risveglia murato vivo nel suo stesso corpo. Si chiama locked in syndrome, una rarissima patologia che, visto l’interrotto funzionamento del tronco dell’encefalo da cui passano le terminazioni nervose che governano il nostro corpo, condanna chi ne viene colpito ad un’esistenza del tutto agghiacciante. La lucidità del pensiero fa da contraltare al totale immobilismo del fisico. Jean Dominique è completamente paralizzato, non può mangiare, non può parlare. Può muovere solo la palpebra dell’occhio sinistro che diventa così la soglia che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare, anche se faticosamente, la farfalla del pensiero. Con l’aiuto degli altri e con un particolare codice per lui utilizzato, Jean Do riesce a comunicare con l’esterno e persino a scrivere un libro (Lo scafandro e la farfalla, appunto, da cui è stata tratta la straordinaria trasposizione cinematografica diretta da Julian Schnabel), in cui con straordinaria lucidità e ironia ci rivela al contempo l’orrore della sua condizione e l’indomabile spinta all’espressione di sé. Attraverso quelle pagine incredibili il giornalista ci comunica i suoi pensieri, i suoi desideri, le sue sofferenze, le sue urla. Ci trasmette le sue sensazioni, intervallate da aneddoti commoventi su episodi passati, in quei tempi non sospetti in cui Jean Do era ancora una persona “normale”. Ma la sua condizione non interrompe mai la sua libertà. Perdonatemi, può sembrare assurda questa affermazione, ma è quell’uomo straordinario che ce ne da la dimostrazione, un’autentica testimonianza della capacità dell’essere umano di sperare e di sognare… grazie alla farfalla del pensiero, capace di superare ogni scafandro.
In un passo scrive:
“Lo scafandro si fa meno opprimente e il pensiero può vagabondare come una farfalla. C’è tanto da fare. Si può volare nello spazio e nel tempo, partire per la Terra del Fuoco o per la corte di Re Mida. Si può far visita alla donna amata, scivolarle vicino e accarezzarle il viso ancora addormentato. Si possono costruire castelli in Spagna, conquistare il Vello d’Oro, scoprire Atlantide, realizzare i sogni e le speranze di adulto”.
Così come in un altro frangente la sua farfalla lo porta a rivivere le percezioni sensoriali del gusto (a cui deve per sempre rinunciare), portandolo in ristoranti o addirittura a cucinare egli stesso leccornie, a riassaporare cibi di cui conserva purtroppo solo il ricordo.
Non è questa la vera libertà? Affermare la propria umanità potendo spingere il proprio pensiero al di là di qualsiasi tipo di barriera? Probabilmente, si potrebbe obiettare, se Jean Dominique Bauby non avesse scritto il libro non avremmo mai saputo di questa esperienza. Probabilemnte se qualcuno non avesse scritto la storia con Andy Dufresne protagonista nessuno si sarebbe reso conto di quanto detto finora. Beh, sì è vero. Se non si ha la possibilità di rendere partecipi gli altri, attraverso la comunicazione (in tutte le sue forme) del volo del nostro pensiero, questa libertà, pur rimanendo, si riduce a essere un’esperienza personale. Ma se Bauby non avesse scritto il libro, la sua farfalla sarebbe rimasta ferma. Credo di no. Semplicemente non avremmo saputo che era in volo.
Per concludere allora, e per non sminuire l’importanza della comunicazione verbale, per non far sì che qualcuno possa leggere in queste righe una pretesa di posizione sulla storica diatriba della priorità di uno dei due termini all’interno del rapporto pensiero/parola, diamo una definizione di libertà che li racchiuda entrambi. E per farlo mi concedo il lusso di commettere il crimine di lesa maestà nei confronti di George Orwell:
“La libertà consiste nella libertà di pensare e di poter dire che due più due fanno quattro. Se è concessa questa libertà, ne seguono tutte le altre”
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