martedì 30 agosto 2011

I LUOGHI DI VITO TETI


di BRUNO GRECO

SOVERIA MANNELLI - Perfetta introduzione è stata la lectio magistralis del prof. Vito Teti nell’ambito della prima edizione de "Il Festival dei Luoghi", curata da Antonio Cavallaro direttore commerciale della Rubbettino editore.

In un primo momento, rivolto verso un uditorio molto dedito all’ascolto, il professore Teti ha cercato di interpretare la nozione di "luogo", sposando soprattutto il concetto tramandatoci da Marcel Mauss: «Un luogo non è un insieme di palazzi o di strade, un luogo è soprattutto fatto da trame e relazioni tra esseri umani». Nella visione di Vito Teti, i luoghi, lungi dall’essere insiemi di componenti materiche, sono intrisi di «sentimento» e «anima».
Questo non va interpretato secondo le leggi della metafisica, ma dal punto di vista della sua "storicità". L’anello principale che collega l’individuo al luogo è il "Ricordo". «Noi siamo il luogo in cui siamo nati e cresciuti… i luoghi sognati, mitizzati, amati e odiati»: qui Teti non parla di mero spazio geografico, ma di luogo come «organizzazione simbolica e mentale».
Purtroppo, con l’ausilio del ricordo, l’individuo razionalizza di "essere anche il luogo che ha abbandonato".
Ed è proprio sul concetto di abbandono che si sviluppa l’excursus di Teti. L’abbandono infatti rappresenta un punto di rottura tra l’uomo e il luogo, sebbene non si tratti di un distacco permanente. E da qui comincia il contrasto interno tra «fuga e permanenza» elementi che fanno parte di una stessa persona come di una stessa antropologia. Nel momento in cui avviene la fuga, non si sa più dove ci si trova. Ma questo fatto può rappresentare un problema "fisico", non necessariamente affine all’anima. A conferma di ciò Teti utilizza le parole di Corrado Alvaro, che pensando ai suoi conterranei sosteneva: «Il calabrese è fermo anche quando viaggia».
L’abbandono dei paesi natali, fattore oggi sempre più frequente, mette anche in risalto un’enorme differenza sociale tra presente e passato. Il professore Teti, riportando alla luce i tempi andati, ricorda come in passato era più radicato nei paesi il senso di "comunità" e il concetto di "sacralità della vita". Erano tempi in cui Pasolini ci parlava di "beni necessari" perché indispensabili per l’esistenza. Caduto questo postulato, «oggi ‒ fa notare Teti ‒ in una società dove i beni possono risultare superflui anche la vita diviene tale».
Nel mondo globalizzato, dove il bene ha perso il proprio valore, anche il "paese presepe" ‒ nostro luogo per eccellenza ‒ è entrato in crisi, compromettendo il ruolo della comunità e favorendo un concetto maggiormente individualistico del mondo, che induce la persona a non avere più un rapporto sentimentale con la natura.
Ritornando al concetto di abbandono, Teti spiega che «la Calabria è un paradigma di abbandoni». Questo dato reale è dipeso anche dai continui terremoti che in passato hanno interessato tutta la regione, primo su tutti quello del 1783. Intere popolazioni assalite dalla malinconia per essersi visti distruggere il loro "fare".
Di conseguenza alla catastrofe naturale la vita diviene sempre più precaria, priva dei servizi necessari e dell’igiene. In merito a ciò Teti cita Norman Douglas sostenendo che «non si capisce la Calabria se non si conosce la malaria». Anche a causa di ciò la grande migrazione a cavallo tra Ottocento e Novecento ha provocato lo spostamento di 500mila persone.
I calabresi, nonostante siano stati sempre costretti all’abbandono, mantengono nel loro animo una certa doppiezza: anche se obbligati a spostarsi o a vivere altrove tornano nei propri luoghi per "la festa", legati agli affetti e restii ad abituarsi a un altro stile di vita.
Per questo la parola memoria in Calabria viene adoperata più che altrove. È fondamentalmente un termine retorico che serve a salvarci l’anima ma non ci fa guardare al futuro.
E se, per quanto concerne l’abbandono, le catastrofi naturali hanno le loro responsabilità, la spada di Damocle irta sul territorio calabrese rimane sempre e comunque l’uomo. Riferimenti eclatanti descritti da Vito Teti riguardano ad esempio la «morte annunciata di un paese» come nel caso di Cavallerizzo. Sì, proprio perché «sulle catastrofi i gruppi dirigenti hanno sempre prosperato», approfittando dell’atavico stato di subalternità che la comunità calabrese ha sempre avuto nei confronti della politica.
«Oggi ‒ conclude Teti ‒ bisogna avere riguardo dei luoghi mossi da nostalgia critica del presente affinché i paesi abbandonati vengano visitati». E mentre un tempo il calabrese faceva ritorno al suo paese, anche se per il breve periodo delle vacanze, oggi perlopiù le strade dei luoghi abbandonati (delle cosiddette rovine) sono solcate da turisti, che con la loro visita sottolineano lo stacco epocale che c’è tra quei posti e chi negli stessi c’ha vissuto.
Pertanto, la rovina assume qui una funzione pedagogica che ci fa comprendere quanto ognuno di noi è debitore nei confronti del proprio luogo, nei confronti di quel posto dove il senso del pubblico e l’amore per la bellezza erano gli assiomi della comunità.

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