venerdì 11 maggio 2012

APRILE LA STORIA, BENNATO L'ESSENZA - Un pezzo di Sud oggi al Salone del Libro di Torino



di ANDREA TRAPASSO

TORINO – Un angolo del Lingotto di Torino, dove oggi ha aperto i battenti il Salone Internazionale del Libro, si è trasformato in un angolo del nostro Meridione. I versi de Che il Mediterraneo Sia intonati alla chitarra da Eugenio Bennato e sullo sfondo una ragazza, torinese e insegnante di pizzica proprio nella città sabauda, hanno animato per alcuni minuti la Sala Rossa del centro fieristico, "abitata" in quei momenti da un mescolarsi di accenti che di settentrionali avevano ben poco.
L'occasione, però, non era lo show case del nuovo album di Bennato, né la presentazione di un libro sulle tradizioni musicali, bensì si trattava del convegno su Giù al Sud, l'ultima fatica letteraria del giornalista Pino Aprile, un autore – come afferma il relatore dell'incontro Umberto Brindani – che "ha saputo con Terroni soddisfare una domanda inevasa, riuscendo a raccontare alla massa delle cose che la massa nemmeno aveva osato fino a quel momento immaginare". O che forse, si potrebbe aggiungere, sapeva ma aveva preferito fino a quel momento fare finta di niente.

Parliamo della Questione Meridionale, la situazione di squilibrio tra il nord e il sud del nostro paese che, persiste ormai da più di 150 anni, da quella famigerata Unità d'Italia che di unico, forse, ebbe ben poco.
Aprile ripercorre per sommi capi i temi trattati nel suo precedente libro, anche per calare i presenti nel contesto di riferimento (siamo a Torino e come afferma giustamente Bennato "è bello che siamo qui oggi a poter parlare di queste cose"). Razzie, violenze, deportazioni, distruzione, prima, scelte politiche ed economiche poi, hanno fatto perdurare in Italia una situazione di "colonia interna" che in nessun altro paese del mondo ha avuto la stessa intensità e la stessa enormità in termini temporali. Una questione di cui gli aspetti scabrosi o "politicamente scorretti" sono stati a lungo celati, anzi, cancellati completamente dalle pagine della storia ufficiale e accademica. Perché si sa, troppe volte ci si chiede il perché certe cose vanno o non vanno raccontate. Ma parafrasando lo stesso Aprile, chi fa una cosa del genere sta facendo politica, mentre in alcuni casi è necessario, obbligatorio, dovuto, applicare il metodo giornalistico del più semplice "se sai una cosa dilla", per quanto pericoloso possa essere. Ed è quello che Pino Aprile ha fatto con Terroni. Ma se lì si era limitato a descrivere gli avvenimenti storici e una situazione contemporanea che poteva sembrare immutabile nel futuro, con Giù al Sud si legge uno spiraglio di riscatto e di salvezza. Ne è testimone lo stesso sottotitolo dell'opera, Perché i terroni salveranno l'Italia, che non solo lascia intravedere una miglioria dell'intera situazione nazionale, ma addirittura attibuisce proprio ai perseguitati, ai sottomessi, agli ultimi, ai coloni, il potere di farlo.
«Le opere degli uomini le fanno gli uomini – dice Aprile – Se l'uomo ha creato una certa situazione, è l'uomo stesso che la deve risolvere». Partendo dal presupposto che solo le persone oneste potranno assolvere a questo compito, resta da capire perché proprio i terroni, e con quali mezzi.
Non è facile entrare nel ragionamento di Pino Aprile, nel senso che la condizione dell'uomo meridionale sembra, proprio seguendo le spiegazioni del giornalista pugliese, come fossilizzata da centocinquant'anni di sofferenze e di "educazione alla minorità". Vittima e adepto della "Teoria del mondo giusto" (ovvero la tendenza ad accettare e giustificare la propria condizione di inferiorità perché è l'unica che ci si possa meritare) e caduto in pieno nella "Condizione dell'Attonito" (l'incapacità di reazione davanti all'imprevedibilità e alla gravità di un qualcosa che ci accade), l'uomo meridionale non ha saputo rialzare la testa, pur essendo consapevole della grandezza, delle potenzialità e della bellezza della propria terra («Come il protagonista di Novecento di Baricco – dichiara Aprile – vorrei vivere per tutta la mia vita su un traghetto al centro delllo Stretto di Messina, per godere della sua magnificità, senza però mai dovermi avvicinare alle coste, perché lì tutto crollerebbe»). Ma allora perché le cose dovrebbero cambiare ora?
«Perché i tempi stanno cambiando, stanno cambiando lentamente le condizioni, i modi e le possibilità di vita della gente, soprattutto dei giovani». Il riferimento dell'autore viene poi finalmente esplicitato. È l'avvento della tecnologia e degli attuali mezzi di comunicazione che può cambiare le cose. In un mondo dove le dimensioni dello spazio e del tempo sono ormai venute meno, dove tutte le distanze possono essere colmate con un click, i giovani meridionali di oggi, secondo Aprile, rappresentano la prima generazione che, da 150 anni a questa parte, possono varcare il proprio provincialismo, senza tuttavia spostarsi dalla provincia stessa. In altre parole, essere cittadini del mondo e scrollarsi di dosso quel senso di impotenza (o di impossibilità) in cui gli uomini del Sud hanno vissuto.
La prospettiva proiettataci (che l'autore promette di approfondire nel prossimo libro) è ricca di speranza e di concrete realizzazioni. Ma fa nascere diversi interrogativi e su tutti due in particolare. Primo, occorre che questo senso di "onnipresenza" offertaci dai mezzi tecnologici, si traduca realmente in una presa di coscienza da parte dei giovani, che dia una scossa e uno stimolo a reagire e a riprendere in mano il proprio destino. Perché il rischio di un ulteriore inebetimento e di un controllo sempre più serrato sulle volontà umane, è quantomai possibile.
Secondo, se è pur vero che dalla nostra camera cosentina, possiamo essere in un attimo a New York o ad Adelaide, è altrettanto reale che se per andare da Cosenza a Catanzaro, o da Catania a Palermo, ci si impiega 4 ore, il progresso sarà sempre e comunque solo virtuale. Questo per dire che chi ha in mano i destini della nostra Nazione, quelle istituzioni che finora hanno destinato alla subalternità un'intera area del Paese, devono per prime essere educate a voler invertire la tendenza, o voler togliere quel giogo su cui da sempre si concentrano.
E Bennato? I momenti di allegria e di emozione suscitati dalla calda voce del menestrello napoletano hanno fatto da contraltare (o se vogliamo hanno rappresentato un'efficace e azzeccata intersecazione) alla profonda riflessione sollevata dai testi di Aprile. Perché se Aprile ha analizzato la questione da un punto di vista storico ed economico, chi meglio di Bennato poteva affrontarla da un punto di vista culturale, dal punto di vista degli oppressi (ma sempre dignitosi e combattivi) che hanno popolato la sua produzione musicale. Perché sì, il canto è la voce dell'oppresso, ma è anche uno strumento di denuncia, di riscatto, di vittoria.
Una vittoria che sarà completa quando non dovranno essere gli altri, com'è stato finora, a farci accorgere di essere MERIDIONALI.

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