di ANDREA TRAPASSO
TORINO – Un angolo del Lingotto di
Torino, dove oggi ha aperto i battenti il Salone Internazionale del
Libro, si è trasformato in un angolo del nostro Meridione. I versi
de Che il Mediterraneo Sia intonati alla chitarra da Eugenio Bennato e
sullo sfondo una ragazza, torinese e insegnante di pizzica proprio
nella città sabauda, hanno animato per alcuni minuti la Sala Rossa
del centro fieristico, "abitata" in quei momenti da un
mescolarsi di accenti che di settentrionali avevano ben poco.
L'occasione, però, non era lo show case del nuovo album di Bennato,
né la presentazione di un libro sulle tradizioni musicali, bensì si
trattava del convegno su Giù al Sud, l'ultima fatica letteraria del
giornalista Pino Aprile, un autore – come afferma il relatore
dell'incontro Umberto Brindani – che "ha saputo con Terroni
soddisfare una domanda inevasa, riuscendo a raccontare alla massa
delle cose che la massa nemmeno aveva osato fino a quel momento
immaginare". O che forse, si potrebbe aggiungere, sapeva ma
aveva preferito fino a quel momento fare finta di niente.
Parliamo della Questione Meridionale, la situazione di squilibrio tra il nord e il sud del nostro paese che, persiste ormai da più di 150 anni, da quella famigerata Unità d'Italia che di unico, forse, ebbe ben poco.
Aprile ripercorre per sommi capi i temi trattati nel suo precedente
libro, anche per calare i presenti nel contesto di riferimento (siamo
a Torino e come afferma giustamente Bennato "è bello che siamo
qui oggi a poter parlare di queste cose"). Razzie, violenze,
deportazioni, distruzione, prima, scelte politiche ed economiche poi,
hanno fatto perdurare in Italia una situazione di "colonia
interna" che in nessun altro paese del mondo ha avuto la stessa
intensità e la stessa enormità in termini temporali. Una questione
di cui gli aspetti scabrosi o "politicamente scorretti"
sono stati a lungo celati, anzi, cancellati completamente dalle
pagine della storia ufficiale e accademica. Perché si sa, troppe
volte ci si chiede il perché certe cose vanno o non vanno
raccontate. Ma parafrasando lo stesso Aprile, chi fa una cosa del
genere sta facendo politica, mentre in alcuni casi è necessario,
obbligatorio, dovuto, applicare il metodo giornalistico del più
semplice "se sai una cosa dilla", per quanto pericoloso possa essere. Ed
è quello che Pino Aprile ha fatto con Terroni. Ma se lì si era
limitato a descrivere gli avvenimenti storici e una situazione
contemporanea che poteva sembrare immutabile nel futuro, con Giù al
Sud si legge uno spiraglio di riscatto e di salvezza. Ne è testimone
lo stesso sottotitolo dell'opera, Perché i terroni salveranno
l'Italia, che non solo lascia intravedere una miglioria
dell'intera situazione nazionale, ma addirittura attibuisce proprio
ai perseguitati, ai sottomessi, agli ultimi, ai coloni, il potere di
farlo.
«Le opere degli uomini le
fanno gli uomini – dice Aprile – Se l'uomo ha creato una certa
situazione, è l'uomo stesso che la deve risolvere». Partendo dal
presupposto che solo le persone oneste potranno assolvere a questo
compito, resta da capire perché proprio i terroni, e con quali
mezzi.
Non è facile entrare nel ragionamento di Pino Aprile, nel
senso che la condizione dell'uomo meridionale sembra, proprio
seguendo le spiegazioni del giornalista pugliese, come fossilizzata
da centocinquant'anni di sofferenze e di "educazione alla
minorità". Vittima e adepto della "Teoria del mondo
giusto" (ovvero la tendenza ad accettare e giustificare la
propria condizione di inferiorità perché è l'unica che ci si possa
meritare) e caduto in pieno nella "Condizione dell'Attonito"
(l'incapacità di reazione davanti all'imprevedibilità e alla
gravità di un qualcosa che ci accade), l'uomo meridionale non ha
saputo rialzare la testa, pur essendo consapevole della grandezza,
delle potenzialità e della bellezza della propria terra («Come il
protagonista di Novecento di Baricco – dichiara Aprile – vorrei
vivere per tutta la mia vita su un traghetto al centro delllo Stretto
di Messina, per godere della sua magnificità, senza però mai dovermi avvicinare alle coste, perché lì
tutto crollerebbe»). Ma allora perché le cose dovrebbero cambiare
ora?
«Perché i tempi stanno cambiando, stanno cambiando lentamente le
condizioni, i modi e le possibilità di vita della gente, soprattutto
dei giovani». Il riferimento dell'autore viene poi finalmente
esplicitato. È l'avvento della tecnologia e degli attuali mezzi di
comunicazione che può cambiare le cose. In un mondo dove le
dimensioni dello spazio e del tempo sono ormai venute meno, dove
tutte le distanze possono essere colmate con un click, i giovani
meridionali di oggi, secondo Aprile, rappresentano la prima
generazione che, da 150 anni a questa parte, possono varcare il
proprio provincialismo, senza tuttavia spostarsi dalla provincia
stessa. In altre parole, essere cittadini del mondo e scrollarsi di
dosso quel senso di impotenza (o di impossibilità) in cui gli uomini
del Sud hanno vissuto.
La prospettiva proiettataci (che l'autore
promette di approfondire nel prossimo libro) è ricca di speranza e
di concrete realizzazioni. Ma fa nascere diversi interrogativi e su
tutti due in particolare. Primo, occorre che questo senso di
"onnipresenza" offertaci dai mezzi tecnologici, si traduca
realmente in una presa di coscienza da parte dei giovani, che dia una
scossa e uno stimolo a reagire e a riprendere in mano il proprio
destino. Perché il rischio di un ulteriore inebetimento e di un
controllo sempre più serrato sulle volontà umane, è quantomai
possibile.
Secondo, se è pur vero che dalla nostra camera cosentina,
possiamo essere in un attimo a New York o ad Adelaide, è altrettanto
reale che se per andare da Cosenza a Catanzaro, o da Catania a
Palermo, ci si impiega 4 ore, il progresso sarà sempre e comunque
solo virtuale. Questo per dire che chi ha in mano i destini della
nostra Nazione, quelle istituzioni che finora hanno destinato alla
subalternità un'intera area del Paese, devono per prime essere
educate a voler invertire la tendenza, o voler togliere quel giogo su cui da sempre si concentrano.
E Bennato? I momenti di allegria e di
emozione suscitati dalla calda voce del menestrello napoletano hanno
fatto da contraltare (o se vogliamo hanno rappresentato un'efficace e
azzeccata intersecazione) alla profonda riflessione sollevata dai
testi di Aprile. Perché se Aprile ha analizzato la questione da un
punto di vista storico ed economico, chi meglio di Bennato poteva
affrontarla da un punto di vista culturale, dal punto di vista degli
oppressi (ma sempre dignitosi e combattivi) che hanno popolato la sua
produzione musicale. Perché sì, il canto è la voce dell'oppresso,
ma è anche uno strumento di denuncia, di riscatto, di vittoria.
Una
vittoria che sarà completa quando non dovranno essere gli altri,
com'è stato finora, a farci accorgere di essere MERIDIONALI.
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