“Puoi sopravvivere e iniziare a morire dentro. Oppure puoi andare oltre. Shaul Ladany lo ha fatto. Per due volte. […] forse non è un caso che, da atleta, abbia scelto la marcia. Un metro dopo l’altro, sempre dritto senza voltarti. E a ogni passo metti una distanza tra te e quello che ti sei lasciato alle spalle".
Questo è quello che Andrea Schiavon, anche lui presente in quella stessa automobile quel giorno, ha scritto nel suo libro, dove racconta la storia “dell’eterno sopravvissuto”.
Dopo otto chilometri di marcia, insieme ad un gruppo di studenti delle scuole superiori della città, è arrivato in aula magna per un breve saluto, preludio della testimonianza che sarebbe di lì a poco avrebbe dato.
Seduta sulle poltrone dell’Aula Magna ancora una volta ascoltavo in religioso silenzio ciò che Ladany raccontava. Parole che riecheggiano ancora nella mia testa. “Non può esistere una maniera univoca di reagire al dolore, ogni individuo è unico e quindi anche la sofferenza è diversa. Io ho imparato a non avere più paura di nulla, neppure della morte”. Ho ancora “Nella vita bisogna essere ambiziosi, non bruciare mai le tappe. Dobbiamo imparare a fissare un obiettivo, uno solo e concentrarci su quello. Una volta raggiunto non bisogna fermarsi, perché esso sarà punto di partenza per un nuovo traguardo".
Ascoltavo e pensavo che questi uomini, ma come lui anche tante donne che hanno vissuto la sua stessa esperienza, sono persone da cui prendere esempio e di cui tramandare la memoria, sempre. Tra trenta, quaranta, cinquanta anni non ci saranno più, ma di loro deve rimanere vivo il ricordo e la testimonianza di vita, l’esempio di forza che ci hanno dato e che ci hanno lasciato.
Never again, queste sono le parole con cui ha concluso il suo intervento/testimonianza presso l’Unical, spiegando che per lui non è solo un motto, bensì uno stile di vita. Never again tramutando però la parola nella pratica.
Isabella Calidonna
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